Wednesday 26 June 2013

Completezza del Mondo

 
Nous ne vivons pas dans un monde achevé, dont nous n'aurions plus qu'à célébrer la perfection. L'idée même de démocratie est toujours inachevée, toujours à conquérir.
Il y a dans l'idée de globalisation, et chez ceux qui s'en réclament, une idée de l'achèvement du monde et de l'arrêt du temps qui dénote une absence d'imagination et un engluement dans le présent qui sont profondément contraires à l'esprit scientifique et à la morale politique. Il nous faut ajourd'hui repenser la frontière, cette réalité sans cesse déniée et sans cesse réaffirmée.
Une frontière n'est pas un barrage, c'est un passage. Les frontières ne s'effacent jamais, elles se redessinent. La frontière a toujours une dimension temporelle: c'est la forme de l'avenir et, peut-être, de l'espoir. Voilà ce que ne devraient pas oublier les idéologues du monde contemporain qui souffrent tour à tour de trop d'optimisme ou de trop de pessimisme, de trop d'arrogance dans tous les cas.
                                                                                    Marc Augé


Tuesday 25 June 2013

Notte al Museo di Castelvecchio


La Sala Reggia del Museo di Castelvecchio a Verona fu ristrutturata ed allestita da Carlo Scarpa agli inizi degli anni ’60 e da allora non venne mai modificata. Ospita 30 opere d’arte, del XIV e XV secolo, tra cui quadri, pale e polittici, due crocifissi stazionali, 6 statue originariamente policrome, un piccolo altorilievo e due frammenti di affresco.  
Mentre di giorno si mostrano impeccabili ai visitatori, la notte appena i custodi chiudono tutto ed inizia il buio, le opere d’arte generalmente si animano. Iniziano a pensare, a ricordare dei tempi in cui le figure rappresentate furono uomini, dei tempi in cui vennero dipinte o scolpite. Iniziano a dialogare tra loro, ad avere anche dotte dissertazioni. 
Le opere si sono date dei soprannomi e sono questi che vengono riportati nel testo. Ovviamente nell’anteprima viene fornita una scheda per ognuna delle opere esposte, con indicazione dell’artista, denominazione, anno o periodo di riferimento, dimensioni, materiale (e tecnica pittorica), numero di inventario, soprannome poi utilizzato nel testo. Scorci della sala ed immagini delle opere sono poi inserite nel testo. 
Il romanzo è suddiviso in 9 capitoli. La vicenda si svolge in un’unica notte di fine marzo e sempre rigorosamente all’interno della Sala Reggia. Il tono varia, a seconda delle situazioni, dal serio al quasi scherzoso. Le opere che parlano adottano in genere un linguaggio un po’ desueto e forbito. Quattro statue, posizionate in semicerchio, usano fare commenti e pettegolezzi in versi.  
Non vi è una particolare trama. Tra i racconti assumono rilevanza quello del Cristo sul periodo non menzionato dai Vangeli, quando (secondo la ricostruzione romanzata) lui si recò in Tibet. Vi sono poi ricordi e casi di temporanea amnesia di alcune opere, sia riferiti a tempi antichi, che al periodo in cui furono dipinte o scolpite. Vi sono infine le espressioni di rammarico per come determinati fatti storici vennero falsati dalla memoria degli umani.  
Vi è una dotta dissertazione sulla forma e struttura del Museo, con ipotesi di tipo scientifico, basate su elaborazioni matematico-algebriche. Ve ne è una su come le opere d’arte si sentono guardate ed apprezzate da custodi e visitatori. Vi sono poi considerazioni varie sulle differenze tra umani ed opere d’arte, ad esempio sul modo di ricordare, sul senso di reciproco rispetto. 
Ma vi sono anche altri avvenimenti. Tra questi assume rilevanza la fine della storia d’amore (per come può determinarsi una storia d’amore tra opere d’arte) tra una pala ed una statua, con le grandi pene di quest’ultima. Vi è poi il forte desiderio di un’opera che vorrebbe fuggire via dal Museo, che si addormenta e sogna tale sua fuga. Vi è infine un curioso ritrovamento che una delle opere fa. Ritrovamento che creerà qualche scompiglio all’interno della Sala. 
Poi la notte finisce e le opere si ricompongono e si preparano ad esser nuovamente ispezionate dai custodi prima dell’apertura. Nell’ultimo capitolo protagonisti non sono più le opere d’arte, bensì i custodi, che in quella specifica mattinata dovranno confrontarsi con un'inquietante scoperta.


 

Monday 24 June 2013

Recensione de: Il segreto di Napoleone di Lara Balercia

     

Fate attenzione o prima o poi finirete per accorgervi di aver visto proprio quello che non avreste dovuto vedere
 
Prima di iniziare un commento sul libro è doveroso proporre un plauso alla giovane Lara Balercia. In un periodo di crisi e di grande crisi dell’editoria, è senz’altro encomiabile che dei giovani provino il desiderio di scrivere, e soprattutto di scrivere con passione, tanto da giungere ad affermare: “Sentivo un bisogno nuovo crescere dentro me: l’esigenza di intraprendere strade difficili, vie che prima mi spaventavano e che mai avrei immaginato di percorrere”. 
A un amante dei musei come me fa poi un gran piacere vedere come il giovanile entusiasmo dell’Autrice l’abbia portata a descrivere, anche con dovizia di particolari e belle immagini, il Louvre e il British Museum. 
Venendo al testo, lo si potrebbe definire una riedizione giovanile, in cui anche il computer gioca la sua parte, di più famosi libri con ricostruzioni fantasiose su vicende del passato, che è qui inutile ricordare. 
Un professore di astrofisica, ormai anziano e malato, casualmente trova tra le pagine di una Bibbia che teneva in biblioteca, lo scritto di un suo antenato, che era al servizio di Napoleone e che lo aveva assistito negli ultimi anni di vita a Sant’Elena. E nello scritto viene detto come in punto di morte l’ex imperatore gli avesse confidato un segreto. O meglio un indizio di qualcosa che doveva essere un importante segreto, costituito da tre gruppi di lettere assolutamente incomprensibili ed in un certo senso insignificanti.  Tuttavia, con l’aiuto di un suo estroso e preparato allievo, esperto di computer e di navigazione in internet, il professore giunge a scoprire che quei gruppi di lettere facevano riferimento alla Sfinge, allo Zed, orologio cosmico simbolo di Osiride ed alla Piramide di Cheope. 
A quel punto non ha dubbi, deve recarsi in Egitto insieme all’allievo, alla ricerca di una seppur remota possibilità di dipanare quella ingarbugliata matassa. Giunti al Cairo i due scoprono realtà inquietanti. Si susseguono quindi belle pagine con descrizione di intrighi, fughe rocambolesche ed omicidi cruenti.
Sullo sfondo una simpatica archeologa francese che si presta a venir loro in aiuto ed un personaggio inquietante e misterioso, l’Innominato.  Le indagini dei due iniziano a dare qualche frutto, in particolare con riferimento alla teoria, secondo la quale l’orientamento delle piramidi rappresenterebbe la Cintura di Orione, fatto che porterebbe anche ad attribuirne la costruzione al decimo-undicesimo millennio prima di Cristo, non da parte degli egizi, ma di un popolo sconosciuto.
Tale primo risultato porta alla individuazione di ulteriori fatti e misteri, quali la connessione tra le Piramdi, il tempio di Angkor in Cambogia e il sito di Tiwanako in Bolivia.  Loro si sono tuttavia troppo avventurati sulla via della scoperta di segreti che non possono essere rivelati. Lo stesso Innominato viene infatti a precisare: “Siamo i custodi di un segreto che nessuno dovrà conoscere, mai. Si tratta di notizie che potrebbero cambiare radicalmente la concezione che l’umanità ha del mondo”. 
Non si può ovviamente rivelare qui il finale del libro, per non gustarne la scoperta ai potenziali lettori. Si può solo aggiungere che Lara Balercia, con un bel salto rocambolesco finisce con il rivelare notizie, che effettivamente nessuno avrebbe dovuto conoscere, e che forse lo stesso Napoleone aveva in qualche modo raccolto. Un segreto violato, che sarebbe stato alla base della sua morte per avvelenamento. 
Un sincero plauso all’Autrice, anche per la sua scrittura fresca e disinvolta.

Lungo week-end all'Agawa canyon

 
Questo fine settimana lungo week-end per festeggiare il mio compleanno, nel Nord dell’Ontario, con il trenino che per quattro ore si inerpica lungo le ripide coste dell’Agawa Canyon, con cascate e vedute mozzafiato.
Il tutto per rifarci gli occhi, rispetto al piattume di tutta l’area di Toronto.

Sunday 16 June 2013

Recensione de: Mister Yod non può morire, di Maria Antonietta Pinna



"Non è facile per me dirvi quello che sto per dirvi, sempre che riesca a dirvelo…”

La prima sensazione che si prova nel leggere questa squisita pièce teatrale di Maria Antonietta Pinna è di ammirazione per la rara padronanza che l’Autrice ha del linguaggio teatrale e delle sue dinamiche. Solo in un secondo momento si viene risucchiati in contrade più recondite, dove troneggiano esoterismo e mito, sapientemente fusi al teatro dell’assurdo ed a Bertold Brecht, come suggerito da alcuni commentatori.
La pièce appare tuttavia impostata per consentire anche un altro tipo di lettura, “più leggera”. Si possono così momentaneamente accantonare le “origini filosofico-culturali” del testo, a partire dai misteri del significato dello stesso nome del protagonista, Yod, nome impronunciabile nella tradizione ebraica, espressione di una potenza soprannaturale e dall’essenza sconosciuta e tremenda.
Il suo ruolo infatti viene qui poveramente ad infrangersi e sgretolarsi, trasformandone la figura in quella di un attonito spettatore di se stesso, “spesso impotente del risultato della sue azioni, assolutamente e drammaticamente eterne”.
Tale accantonamento permette quindi di disvelare una nuova dimensione per il personaggio stesso. Quella della metafora dell’uomo che non è mai soddisfatto del suo stato, anche eccezionale come quello di un essere immortale, e che sogna una diversità dal sé.
Ma che poi quando la raggiunge quella diversità, ha come un moto di ripulsa e vorrebbe tornare alla sua condizione primigenia. Una metafora di chi è in perenne attesa di qualcosa che deve accadere, che gli deve capitare, per renderlo finalmente felice, per far sì che non rimanga a consumarsi inutilmente la vita, come lo si è potuto riscontrare in tanti esempi letterari, dal Giardino dei Ciliegi allo stesso Deserto dei Tartari, tanto per proporre qui due esempi. Con la differenza però, come detto, che lui quando finalmente lo incontra (il nemico del tenente Drogo), ne prova ripulsa. E vorrebbe rifugiarsi nel ventre della balena, come il Don Geppetto di Pinocchio, che vi si trovava bene, ed in fondo era ben lieto di rimanersene al calduccio.
Ovviamente per la Pinna quella balena non potrebbe che rivelarsi come un essere dalle proprietà e virtù simili a quelle dello stesso Yod, ovvero un essere mitico ed immortale, legato alla leggenda di Sedna, nota tra gli Inuit qui del Canada come Nuliajuk, la donna-pesce, anch’essa come Yod sottratta alla legge ineludibile del divenire.
Sempre secondo tale tipo d’interpretazione, il lettore viene quindi accompagnato in una dimensione, certo ancora surreale, ma più delicata, più intimista. E’ come se gli venisse offerta la possibilità del lasciarsi giusto cullare, come in una nenia, dalle splendide sonorità dei dialoghi privi di senso dei familiari di Yod, che sembrano prender vita dall’ultima parola pronunciata dal precedente interlocutore, e proposti in un contesto totalmente nuovo e privo di senso: “Davvero sei così pigro?”; “In compenso ho l’intestino pigro”; “Io in compenso ho la gamba pigra, reumatica”; “Io ho una moglie pigra e un figlio pigro”; “Io ho soltanto un fegato, ma pigro pure lui”. Od ancora: “Ma tu chi sei?”; “Non lo so e tu?”; “Io cosa?”; dialoghi tutti recitati in sequenza dai vari attori, come in un canto a cappella. Oppure quella di assaporare la deliziosa recitazione delle qualità dello stesso Yod, tutte espresse al negativo, da “ineffabile, insuperabile”; a “incancellabile, insostituibile, incoercibile, imperscrutabile”; e dove troneggia, sola eccezione, la lista: “improponibile, inammissibile, inopinabile, propinabile, insensibile!”, con quell’aggettivo “propinabile”, sul quale non ci si può che soffermare, incuriositi. Un semplice refuso sembra non ragionevole, data la raffinatezza dell’Autrice. E allora?
A prescindere da questo ultimo inciso, si tratta di sonorità che giungono a catturare e trasportare il lettore (o lo spettatore immaginando la pièce andata in scena) in altri mondi, immateriali, anche se non metafisici. Solo a tratti, in una situazione di “noia universale e ciclica” si è riportati sulla terra, tra gli uomini della nostra epoca sciocca ed insulsa, quella dell’Italia nostrana, con “la televisione che non cambia, ed i politici peggio”; con i riferimenti a deputati, a raccomandati, ad escort, a soprusi e raggiri, tutti sempre eternamente uguali. “Cambiano facce, colori, forme, nomi, ma non cambia niente in realtà”.
E parimenti il lettore viene come invitato a percorrere le pagine in cui appaiono le due figure allegoriche del testo: Paracelso e Don Abbondio (cui Yod si rivolge in cerca di soluzione al problema che lo affligge), avendo alla mente più che Jonesco, gli abitanti dei pianetini de: Il Piccolo Principe. Si guardi al tal proposito al suo dialogo con l’ubriacone: “«Perché bevi?» chiese il Piccolo Principe. «Per dimenticare», rispose l’ubriacone. «Per dimenticare che cosa?» s’informò il Piccolo Principe che cominciava già a compiangerlo. «Per dimenticare che ho vergogna», confessò l’ubriacone abbassando la testa. «Vergogna di che?» «Vergogna di bere»”.
Ed a coronamento del tutto, viene invogliato a non sottrarsi al puro godimento estetico dei geroglifici, scritte cabalistiche, simboli esoterici, proposti all’apertura del secondo Atto. Non ha che da percorrerli con lo sguardo e gustarseli come semplici eleganti elementi di effetto scenico.
In conclusione, mentre non si possono che condividere i commenti di Alfonso Postiglione o di Cinzia Baldini, cui si rimandano gli interessati alla “visionarietà in letteratura”, questo testo sorprende per la sapiente capacità di offrirsi anche ad un pubblico più vasto.
E mentre si raccomanda a tutti la lettura di questo bel lavoro teatrale, non si può che augurarne di cuore all’Autrice una prossima andata in scena.

Wednesday 5 June 2013

Recensione de: Il forgiatore di spade, di Elodia Saetti

La spada di Bran si librò nell’aria e s’abbatté su quella dell’avversario, tagliandola di netto.
 
Dopo il suo bellissimo romanzo: Lo sguardo di Daithé, Elodia Saetti ci propone ora un nuovo testo sul mondo Celtico: Il forgiatore di spade, ambientato nella Britannia del sud, in prossimità di Stonehenge, presso la tribù realmente esistita degli Ancaliti.
Lei è un’attenta studiosa di quei popoli e ancora una volta ci offre un affascinante affresco sui loro usi e costumi, dal ruolo dei druidi e dei sacrifici umani, alle lotte di potere ed ai sistemi di vassallaggio e servitù, fino a dettagli sui loro insediamenti, il loro cibo e le loro vesti. In entrambi i libri è costantemente latente il senso dell’incombente tragico destino che avvolge quei popoli. Un destino di annientamento e scomparsa.
Vercingetorige, eroe del primo romanzo, venne sconfitto dai Romani, ed il popolo degli Ancaliti della Britannia verrà annientato, in questo secondo libro, sia per effetto di sanguinose guerre con i popoli confinanti, che per insidiose faide interne, così che andrà per sempre perduto il mondo dei loro antichi saperi. Quei saperi, che i loro adepti traevano dalla magia dei Cerchi di pietra e dalle riverberazioni del Lago sacro, e che in periodi più felici avevano permesso agli iniziati del loro popolo, di liberarsi dell’incapacità che normalmente abbiamo, di poter vedere oltre l’apparenza.
Di quei saperi che avevano permesso a Fintan, druido e fabbro ad un tempo, di forgiare una spada magica, con il metallo venuto dal cielo, dopo esservi stato adeguatamente istruito dalla giovane veggente Aisia: “Solo così potrà nascere una spada in grado di superare le cortine del tempo.
Solo ascoltando il canto del metallo, assecondandolo, piegandosi al suo desiderio. Un’unione che legherà alla materia la tua stessa forza, imprigionando la natura dell’uomo in quella del ferro, forgiandola in armonia con ciò che ti circonda”.
Destino però crudele il loro. Fintan ed Aisia si erano infatti innamorati, ma lei stessa aveva predetto: “Questo è il mio pegno d’amore - concluse in un fiato, le gote che s’imporporavano. Poi aggiunse - E la risposta alla tua domanda è: no. Non può un druido innamorarsi di una donna delle fattorie. E nemmeno il contrario”.
Dicevo destino tragico quello dei popoli citati nei due romanzi. Ma la Saetti, in questo secondo libro, ci offre uno spiraglio di speranza e di riscatto.
L’anziano druido Priyos, dalla veste e dai capelli bianchi che ci ricorda Merlino, ormai in punto di morte, scaglia lontano la spada magica forgiata da Fintan, con la sua elegante elsa incastonata di corallo, e quella va ad infiggersi profondamente in una roccia nel folto della foresta.
Nulla ci viene detto dall’Autrice, ma si comprende che quella sarà la spada che poi Artù riuscirà ad estrarre dalla rigida pietra, dando avvio ad un nuovo regno, ad un nuovo momento di gloria per le genti del sud della Britannia.
Va detto infine che alla bella trama si aggiunge, a rendere prezioso ed avvincente questo libro, l’eleganza e la raffinatezza del testo, contrassegnato anche da un ritmo incalzante quando si narra di battaglie od intrighi, solenne quando si descrivono cerimonie e sacrifici propiziatori, tenero e delicato quando si disvelano scene d’amore e di sesso.
Molto bello e pulito, è ad esempio il racconto dell’amplesso adultero di due amanti, immersi nell’acqua di un fiume. Caratteristiche queste del testo, che invitano ad ogni passo a proseguire senza soste nella lettura.
Un libro che decisamente non dovrebbe mancare nella biblioteca, non solo degli appassionati del genere.

Tuesday 4 June 2013

Recensione de: Endecasibillini, di Gian Luigi Bonardi

Un cantico d’altri tempi: le ragioni del pensiero nella sfera dell’ignoto

Personalmente non sono molto attratto dai libri di poesie. Li sfoglio, certo, ne leggo qualche brano, ma poi generalmente mi fermo. E’ raro che io arrivi sino alla fine.
Vi sono tuttavia situazioni come quella di questo libretto, “Endecasillabini”, di Gian Luigi Bonardi, che subito catturano la mia attenzione: “Non incolpare l’ago nel pagliaio,/ sposta le pietre che stanno più a monte/ e scoprirai come uscire dal tuo guaio”.
Si tratta di versi lievemente surrealisti, che richiamano alla memoria filastrocche per bambini, quali: “La zanzara senza zeta” che viveva a Zara, anzi vi languiva, ma non si azzardava a succhiar sangue, di Toti Scialoja. Forse irrazionalmente sono poi attratto dalla vicinanza ed associazione tra versi ed immagini, e sono morbidi, bellissimi, a volte quasi inquietanti, gli scatti dell’Autore, qui proposti.
Citavo Scialoja, ma nel caso di Bonardi adulti e non bambini sono i destinatari di queste filastrocche. Qui come deliziosi nonsense dalle suadenti sonorità abbiamo infatti: “Un rauco grido/ desta interesse e tanto di cappello”; o: “Passa nel serio guanto dei minuti”, od ancora: “Starai sicuro/ con spirito eccellente, e senza danno”.
I versi che mi hanno più colpito sono in ogni caso: “Un tailleur nero e i pattini a rotelle/ raccontano d’un ieri spensierato,/ ma ora son cresciute le sorelle/ ed il buffet col tempo s’è svuotato”, per il loro saper dar voce anche agli oggetti, che vengono qui umanizzati e rimandano ad un’infanzia spensierata e felice.
In conclusione versi anche ben costruiti quelli di Bonardi; ottave di endecasillabi a rime alternate, ben costruiti e con le giuste accentuazioni, che testimoniano di una buona padronanza della lingua e della ritmica poetica.
Certamente lettura da consigliare a chi ami il genere ed a chi sia attratto da lettura soffice ed irrazionale, seduto in una comoda poltrona, e sappia lasciarsi piacevolmente trasportare da spensierati aforismi e parole in liberà.

Saturday 1 June 2013

Video della presentazione a Verona, il 18 maggio, del libro: Notte al Museo di Castelvecchio

Presentazione del libro di Fabrizio Ago: Notte al Museo di Castelvecchio, in occasione della Notte dei Musei 2013 (18 maggio), nell'omonimo Museo a verona, sala Boggian, ore 21.30, con la partecipazione di Paola Marini, direttore del Museo, Alba di Lieto, studiosa di Carlo Scarpa, e dell'Autore.
Al termine della presentazione, visita guidata alla Sala Reggia ed alle splendide opere che vi sono esposte.